La proroga del superbonus 110 limitata al 2022 rappresenta l’ennesima occasione mancata per affrontare in modo lungimirante la pianificazione di un intero settore con conseguenti indubbi benefici economici, sociali e ambientali per il Paese. L’analisi dettagliata di Virginio Trivella ci spiega come una pianificazione di lungo periodo permetterebbe numerosi vantaggi per il Bilancio Pubblico e il rispetto degli impegni comunitari presi per la transizione energetica.
Tra Natale ed Epifania, il Superbonus 110 è stato interessato da qualche cambiamento.
Alcune modifiche hanno esteso il perimetro del provvedimento:
- ora è incentivabile (attraverso una formula piuttosto bizzarra) l’isolamento delle coperture soprastanti i sottotetti non riscaldati; ciò è positivo, perché consente di isolare anche laddove sia impossibile intervenire sull’ultimo solaio, anche se non è chiaro se la superficie isolata possa essere computata nella verifica del superamento del 25% dell’involucro complessivo disperdente trattato;
- sono incentivabili, in quanto trainati, gli interventi di eliminazione delle barriere architettoniche aventi ad oggetto ascensori, montacarichi o altri mezzi adatti a favorire la mobilità delle persone disabili;
- sono incentivabili anche gli interventi sugli edifici posseduti da un’unica persona fisica (al di fuori dell’esercizio di attività economiche) composti fino a un massimo di quattro unità immobiliari; resta comunque valido anche in questi casi il limite di due unità che beneficiano delle detrazioni per gli interventi diversi da quelli realizzati sulle parti comuni.
La modifica che ha lasciato più col fiato sospeso gli osservatori è stata la proroga del superbonus 110 che riguarda la durata del provvedimento. Lo avevamo lasciato che scadeva a fine 2021 (salvo sei mesi in più per gli IACP), e lo ritroviamo allungato di sei mesi, oppure di un anno, ma solo per gli interventi che a metà del 2022 saranno in avanzato stato di realizzazione (giusto per aggiungere un po’ di pathos nei cantieri). Le detrazioni corrispondenti alle spese sostenute nel 2022 saranno fruibili in quattro anni anziché in cinque (per un assurdo problema formale di coordinamento con il Recovery Plan).
Anche la facoltà di trasferire i crediti d’imposta tramite cessione o “sconto in fattura” è prorogata al 2022, ma solo per quelli corrispondenti al Superbonus, e non anche alle altre categorie di detrazioni. Anche questa limitazione non mancherà di provocare incertezze negli appalti “misti” che saranno realizzati a cavallo dei due semestri del 2022.
Molti si sono immediatamente dichiarati delusi per la limitatezza della proroga del superbonus, in contrasto con la raccomandazione di estendere il provvedimento almeno fino alla fine del 2023 votata all’unanimità dal Parlamento non più di qualche settimana prima, o addirittura fino al termine del 2024, come auspicato dai parlamentari del M5S.
Ma alla fine ha prevalso la prudenza del Ministro dell’Economia e l’esigenza di trovare un equilibrio per la destinazione delle risorse complessive della legge di Bilancio, non senza però una vaga promessa di rivedere la situazione con l’allocazione delle risorse del Recovery Fund, che sarebbe avvenuta di lì a breve.
Ma anche in questa occasione, ed è storia di questi giorni, la speranza di poter contare di un orizzonte temporale più adeguato si è abbattuta sulla granitica opposizione del MEF, ormai divenuta palese, forse pungolata anche dalla diffidenza europea di fronte a un apparente squilibrio tra investimenti pubblici e incentivi fiscali mostrato dalle bozze del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).
L’ultima bozza che ha circolato, datata 7 gennaio, mostra infatti un modesto incremento delle risorse a disposizione del Superbonus (che, secondo indiscrezioni, dovrebbe perdere la tagliola dell’avanzamento dei lavori al 60% al 30 giugno 2022) e della proroga a tutto il 2023 di non ben specificati interventi di messa in sicurezza antisismica (nell’ambito del Super-sismabonus? Integrabili con l’Ecobonus? Lo sapremo solo quando il Piano sarà ufficializzato e sarà definito il provvedimento attuativo).
Che dire di questa vicenda? Premesso che nel nostro Paese non è mai detta l’ultima parola, non si può nascondere la delusione per l’ennesima occasione mancata, in un contesto probabilmente irripetibile, di affrontare in modo serio la pianificazione di un intero comparto industriale.
Cioè di mettere in atto quei suggerimenti profusi dai vari documenti strategici messi a punto dagli ultimi tre o quattro Governi e dagli stessi Governi sistematicamente disattesi, volti a definire un sistema di incentivazione stabile, in grado di innescare una rivoluzione green del patrimonio immobiliare nazionale, con l’obiettivo di conseguire la completa decarbonizzazione del settore entro il 2050. Esattamente questo racconta lo STREPIN (Strategia di Riqualificazione del Patrimonio Immobiliare Nazionale), che è in via di definizione e che il MISE ha posto in consultazione pubblica proprio in queste settimane.
Lo scorso settembre è passata abbastanza in sordina la proposta della Commissione europea, approvata dal Consiglio l’11 dicembre, di elevare l’obiettivo della riduzione delle emissioni di gas serra per il 2030 ad almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990, rispetto all’attuale 40%. Si tratta di uno sforzo considerevole se si pensa che oggi siamo al 25%. Considerando i tempi necessari per l’approvazione di una nuova direttiva che renda obbligatorio questo obiettivo, per il suo recepimento e per la sua applicazione in ambito nazionale (almeno 3-4 anni), significa che gli sforzi illustrati nello STREPIN dovranno essere almeno raddoppiati. E questo richiede visione e pianificazione strategica, non provvedimenti che durano uno o due anni, e poi il vuoto.
Naturalmente nessuno è tanto folle da proporre la stabilizzazione di incentivi nella misura del 110%, che sono stati pensati in funzione anticongiunturale, anche se di fatto hanno provocato il blocco del mercato per quasi un anno. È però necessario pianificare una curva di incentivi sostenibili a lungo termine.
E invece ciò che ci viene offerto è un vuoto normativo a orologeria: a fine 2021 scadranno tutti gli Ecobonus. Finita la sbornia del Superbonus, l’anno successivo, il settore non disporrà di una strada tracciata, ma potrà contare solo sulla prospettiva della solita manfrina di fine anno. Sono più di dieci anni che viviamo di proroghe annuali, e il risultato fino ad ora è stato quello di tenere sottotono l’efficientamento energetico degli edifici.
In queste condizioni, con prospettive di così breve durata, non è pensabile che le imprese investano sul serio in risorse umane e tecniche. Senza una visione di quel che succederà dopo la scadenza degli incentivi, il 2022 sarà l’anno delle penali e il 2023 quello dei licenziamenti. Generare una domanda stabile di efficienza energetica, capace di autoalimentare la rigenerazione facendo sempre meno ricorso ai sussidi grazie a un mercato immobiliare che impari ad apprezzare le differenze di qualità dell’usato, dovrebbe essere la visione di uno Stato lungimirante. Ma questo richiede tempo.
Siamo tutti consapevoli che ogni coperta finanziaria è corta per definizione, e che occorre trovare una giusta sintesi tra le tante esigenze che devono essere affrontate. Ma finché la Ragioneria continuerà a computare tutte le spese fiscali e solo una piccola parte delle nuove entrate indotte dalle attività incentivate, la programmazione strategica del Paese resterà una chimera.
Andate a vedere i numeri dell’impatto della proroga del superbonus 110 (se riuscite a trovarli). Intanto, non c’è traccia dei criteri con cui sono stati calcolati (attività indotte previste, tasso di addizionalità dell’incentivo, tasso di imposizione diretta e indiretta). Curioso… Si legge che a fronte di spese fiscali previste per 20 miliardi (minori entrate nel prossimo quinquennio), che corrispondono a 18 miliardi di interventi indotti dall’incentivo, le maggiori entrate per IVA sarebbero solo di 166 milioni (0,9%) e quelle per imposte dirette di 466 milioni (2,6%). Valori bassissimi e inspiegabili, che non riflettono la realtà e che danno la percezione che gli incentivi costino al bilancio pubblico molto di più di quel che fanno.
Inoltre, nel calcolo dell’impatto degli incentivi sul bilancio pubblico non c’è traccia del moltiplicatore degli investimenti (e delle entrate fiscali), quando è la stessa Agenzia delle entrate, insieme all’ISTAT, a riconoscere che nel settore edilizio questo sia vicino a 3. Così come è trascurato che i 100 mila addetti annui aggiuntivi (stima ANCE) sarebbero 100 mila cassintegrati o redditi di cittadinanza in meno; e che con l’efficienza energetica si abbattono i consumi, le emissioni inquinanti e climalteranti, le spese sanitarie; e che con il taglio delle bollette si combatte la povertà energetica.
Con questi numeri, non stupiscono i sospetti comunitari. Una più equilibrata rappresentazione degli effetti finanziari consentirebbe di gestire più serenamente la pianificazione di lungo periodo e la necessaria risposta agli impegni di transizione energetica.
Articolo realizzato da Virginio Trivella – Coordinatore del Comitato tecnico scientifico di Rete IRENE.