Prosegue l’intervista all’Ing. Giuseppe Gioia.
Prosegue l’intervista all’Ing. Giuseppe Gioia; dopo avere visto perchè è così urgente rispondere all’esigenza di ridurre il fabbisogno energetico, passiamo a vedere come la riqualificazione degli edifici in chiave energetica e funzionale, unita alla programmazione periodica della loro manutenzione, sia la chiave per produrre città sostenibili, ambientalmente ed economicamente.
Nella prima parte di questa intervista, emerge un contesto in cui risulta difficile fare delle proposte strategiche: possiamo affermare che è esclusivamente un problema culturale oppure i meccanismi proposti a livello politico sono ancora deboli e perfezionabili? Quali sono le azioni da intraprendere e cosa serve?
Forse serve uno shock, serve una strategia di impatto. Oppure, molto più semplicemente, serve avere il coraggio di cominciare, perché la politica ha già svolto la sua parte mettendo a disposizione norme che favoriscono l’attività di rigenerazione attraverso, in sede locale, alcuni “bonus” forniti dai PGT, in sede regionale con l’entrata in vigore della famosa Legge sul contenimento del consumo di suolo e in ambito nazionale con importanti incentivi fiscali come “eco e sisma bonus” e con la cessione del credito fiscale.
Le proposte progettuali dello strumento urbanistico, però, troppo spesso sono legate, ahimè purtroppo anche se già vedo gli architetti stracciarsi le vesti per quello che dirò, al mantenimento di una forma espressiva che ripropone ormai meccanicamente uno schema non più accoglibile dal mercato sia dal punto di vista espressivo sia come proposta imprenditoriale: ad esempio la casa del centro storico … con finestre uguali ripetute n-mila volte, tetti a falde, facciate giallo strano … come a ripetere una specie di alienante conformismo urbanistico/edilizio.
E proprio al fine di interrompere la monotona riproposizione di uno schema che ormai mal si concilia con le esigenze, sia qualitative/estetico-architettoniche sia prestazionali, si deve creare, tutte le volte che è possibile/necessario, un punto di rottura.
Le motivazioni da cui prende le mosse il mio pensiero sono legate alla necessità di porre particolare attenzione all’ambiente ed alla valorizzazione del costruito in un contesto urbano profondamente segnato da un’architettura di tipo “estensivo”, quella dell’hinterland milanese, ma riproponibile millemila volte dentro ad ogni centro abitato di qualsiasi dimensione.
L’ideale, sarebbe di arrivare a concepire, e poi produrre, la riqualificazione degli edifici con un’edilizia che cambia l’approccio al costruito e che tenga conto (finalmente) della sua funzione sociale-culturale. Nel caso di edifici o intere aree industriali dismesse non sempre è possibile recuperare un fabbricato. Purtroppo in alcuni casi si rende necessaria la demolizione perché, diciamocelo, conservare sassi pericolanti può essere un problema… Questi interventi, quelli dove, ad esempio, la STATICA ci dice che l’edificio non funziona più, mediante la demolizione, ci permetterebbero, raggruppando i volumi originariamente previsti distribuiti sull’area e sviluppandosi in altezza, la “liberazione” della superficie da destinare a verde fruibile dal complesso e dalla comunità in generale. Il beneficio derivante mi pare evidente oltre che ovvio. Ma qui parliamo di una rigenerazione che passa attraverso la demolizione e ricostruzione dell’esistente di tutti quegli edifici che sono oltre il loro limite di vita, quelli per i quali la curva “costi/benefici” dice … non ne vale più la pena… perché saremmo sotto la soglia di accettabilità per le prestazioni attese.
Due grafici esplicativi:
L’onerosità dell’intervento di recupero, a fronte di un continuo ed incontrollato degrado, può avere un’entità tale da non essere più sopportabile dalla proprietà. In questo caso, con l’indice prestazionale posizionato al di sotto della soglia di accettabilità, l’unica prospettiva per l’immobile sarebbe la rovina completa. Infatti secondo la seguente semplice tabella si ha:
Ciò che mi preme mettere al centro dell’attenzione è, però, che dobbiamo fare una serie di passi verso la realizzazione di un equilibrio, possibile, tra uomo (che interviene modificando il paesaggio) e ambiente (risorsa irriproducibile). Perché ogni nostra scelta ha un peso ambientale. Vero è che l’intervento edilizio di riqualificazione avviene in un’area che già era oggetto di insediamenti umani, per cui meglio poco che niente, potremmo dire. Ma questo significa accontentarsi e non risolvere nulla.
Il punto di partenza dell’idea progettuale, la chiave valutativa iniziale, deve rimanere quella di unire la riqualificazione degli edifici con la rigenerazione urbana (non per forza demolitiva dell’esistente) attraverso una sintesi espressiva che raccolga il messaggio costituito dalle consistenze sulla via, rispettosa del genius loci dove si opera e, al contempo, sia capace di dare forma al nuovo.
Allora via a interventi che possano liberare superficie drenante sul lotto andando in altezza con la costruzione, come abbiamo detto, tutte le volte che non vale la pena conservare. La riconsegna delle superfici drenanti alla loro funzione (conferimento in sottosuolo delle acque meteoriche senza impegnare le rete comunale) ha sicuramente un impatto positivo su un’area compromessa come quella dei centri abitati nei quali le complicazioni derivanti dagli eventi piovosi (più o meno importanti) genera la problematica della raccolta e smaltimento delle acque meteoriche in reti, di solito, sottodimensionate perché mai adeguate alle cresciute dimensioni (in termini di numero di abitanti) degli utilizzatori.
Le caratteristiche del pacchetto tecnologico (muri/solai) saranno definiti in funzione dell’elaborazione del progetto termico e acustico con l’attenzione, conforme all’obbligo normativo, di rendere l’edificio energeticamente “virtuoso” riducendo il fabbisogno di combustibile fossile e garantendo il comfort abitativo interno ma, soprattutto partecipando anche al miglioramento delle condizioni ambientali del contesto (il quartiere/paese/città) in cui l’edificio è inserito e di cui è parte integrante.
La proposta progettuale sul costruito degradato o semplicemente vecchio e poco prestazionale e che costituisce, però, la maggior parte del nostro patrimonio nonché dei nostri possibili interventi essendo gli edifici in stato pericoloso una minima percentuale, (come visto nelle tabelle iniziali) deve svolgersi, deve significare un momento di distacco rispetto alla ripetizione continua di uno stile architettonico desueto, non più richiesto né culturalmente né commercialmente (ma tipicamente richiamato nelle argomentazioni di tutti i PGT) e che si fonda sulla riproposizione di una architettura la quale, in sé, non esprime più nessun valore, neppure quello storico né, soprattutto, quello artistico non essendoci, spesso, nello stato di fatto di cui è previsto l’intervento (ossia nella maggior parte degli altri edifici affacciatisi sulla via del centro storico ad esempio) alcun elemento di richiamo alla tradizione costruttiva o alla qualità estetica (originale) del luogo. Il tutto per effetto di quell’edilizia veloce (spiccia o speculativa) degli anni ’60, quelli del boom economico, di quell’architettura vuota (spesso in ferro e vetro) degli anni ‘80/90 … che si è inserita nel contesto urbano e che ha prodotto solo edifici energivori, scarsamente prestazionali. Edifici brutti.
L’idea di rinnovare gli edifici, inoltre, consente di intervenire con un ideale percorso di rigenerazione urbana (di cui magari il nostro edificio si pone come capofila) in un contesto che diversamente, se rimane legato al mantenimento dello status quo, propone un uso degli edifici proprio nello stato (di poca conservazione e di pessimo uso) in cui sono ormai da sempre. Ma così si determina la creazione di numerose zone grigie, sia dal punto di vista ambientale (ad esempio a causa della scarsa qualità energetica degli edifici) sia sociale (con lo svuotamento degli immobili e la trasformazione in zone di degrado urbano e sociale) oltre al ripetersi di un esempio stilistico non più richiesto e che non è mai stato tipico. Alla fine da queste posizioni nascono i NON LUOGHI URBANI. Questo succede su vie cittadine che sono state oggetto di numerosi interventi succedutisi nel tempo e che, tra loro, sono una accozzaglia di generi, stili e forme differenti e non armonizzati. Luoghi che sono stati semplicemente utilizzati e che, per questo, sono spersonalizzati o, se volete, alienanti perché non generano appartenenza.
Quindi una parte di questa paralisi del progresso e delle azioni migliorative ambientali ed economiche è attribuibile anche al forzato mantenimento dello stato di fatto degli edifici all’interno del contesto urbano?
Sicuramente il mantenimento dello stato di fatto rappresenta una situazione che non può generare alcuna virtuosa azione rigenerativa ne dell’edificato ne della parte più urbanizzata (e vissuta o rappresentativa) del paese. Ma, così com’è, non può neppure essere di aiuto al miglioramento ambientale urbano. Qui mi preme ricordare come il miglioramento dell’ambiente (non solo urbano) non sia solo legato ad un minore inquinamento, ma comprenda, anche, la parte visiva/fruitiva richiamando in ciò che abituarsi al “brutto” è deprimente oltre che degradante, anche culturalmente, perché “il bello educa al bello”.
L’idea, motore della proposta progettuale, deve, quindi, prendere le mosse dal fatto che la riqualificazione urbana possa partire dalla riqualificazione degli edifici. E da questa, poi, ne possa derivare una migliore fruibilità degli spazi urbani e, infine, una socialità meno emarginata (fenomeno o manifestazione ormai tipica delle aree urbane in forte stato di degrado edilizio/urbanistico).
A ciò si aggiunga che in ogni contesto storico l’architettura ha rappresentato la testimonianza dell’incontro tra società, cultura, arte ed economia il tutto realizzato mediante le conoscenze scientifiche e tecnologiche esistenti al momento. Ogni opera architettonica realizzata evidenzia le strategie tecnico-compositive atte a garantire le migliori condizioni di vita possibili. Forme, dimensioni, colori, qualità costruttive e interazione con l’ambiente insieme rappresentano la miscellanea di elementi che hanno segnato il nostro vivere e la nostra relazione con l’ambiente costruito. L’attenzione che viene posta nella progettazione architettonica alle problematiche del clima, del microclima interno, della conservazione delle risorse disponibili come l’ambiente, risorsa da lasciare fruibile anche a chi verrà dopo di noi, del miglioramento della qualità della vita, delle problematiche relative all’energia, oltre che all’arte e all’estetica, rappresenta una possibile espressione dell’architettura che, oggi, noi pensiamo e viviamo.
Un ambito di trasformazione urbana di più o meno grande impatto, necessita di poter assolvere al compito di tracciare nuovi punti di vista mediante l’attività progettuale. Il ripetere ossessivamente schemi e modelli che già conosciamo (banalmente le case con il tetto a falde, le scansioni fisse delle finestre tipiche di una certa idea dei centri storici) non ci consente di rispondere ai continui e profondi mutamenti culturali in corso nella nostra società. E per questa affermazione già vedo i puristi dell’architettura che gridano allo scandalo … Ma a me il falso storico, o la riproduzione di uno stile inesistente, fa ribrezzo.
Questo concetto cresce, soprattutto, se si ha un’idea della socialità che può derivare dall’impostazione urbanistica/sociale di un intervento edilizio in quanto è facile capire che le superfici recuperate, edificate o meno e con esse anche i volumi rigenerati, eliminano proprio quelle zone grigie che stanno tanto facilmente diventando i nuovi ghetti dentro i nostri paesi.
È, pertanto, in questo senso che mi piacerebbe che nascesse un’architettura capace di evidenziare non solo la sua identità, ma anche di determinare un territorio connotandolo, un po’ come può farlo una statua in una piazza, arricchendolo e donando un senso di identità ad ambienti che, diversamente, sarebbero privi di un qualsiasi tratto distintivo. Inoltre, attraverso una diversa disposizione dei volumi, mediante il risparmio energetico che si andrebbe ad attuare (sia in termini di costruzione che di gestione del costruito) si può concretizzare il recupero delle condizioni ambientali messe a repentaglio dalla corsa dissennata al mattone realizzatasi nel secolo scorso. Vorrei che gli edifici partecipassero a creare dei LUOGHI URBANI capaci di generare senso di appartenenza, di aggregazione, di identità,…
Lei propone che la riqualificazione degli edifici, di ogni singolo edificio, possa svolgere un ruolo attivo nella rigenerazione urbana, ma questo sarebbe possibile solo grazie ad una pianificazione condivisa e strategica che coinvolga professionalità diversificate?
Alcuni concetti dovrebbero, ormai, essere imprescindibilmente legati all’urbanistica, all’edilizia e all’architettura: sostenibilità, inclusione sociale, risparmio energetico secondo un concetto di sustainable landscape nella sua accezione più ampia.
Il concetto che si vuole, idealmente, affermare con questa proposta, con questo stimolo a pensare, considera di integrare la nuova realtà, ancora da edificarsi, con la città esistente non tanto secondo una logica meramente integrativa (riempio uno spazio), ma con una logica integrante (sono parte di quello spazio). La struttura architettonica, infatti, deve avere un ruolo attivo in grado di generare rapporti dinamici con il costruito ed in grado di modellare nuove immagini della città e nuove realtà dello spazio e dell’architettura attraverso la rigenerazione, la riqualificazione del costruito e degli spazi annessi.
L’idea di fondo che sostanzia l’intervento di riqualificazione edilizia (e urbana) è legata al concetto di natura e architettura che insieme si confrontano e si sostengono in una logica inclusiva.
Tutto ciò si traduce in un’idea progettuale basata sulla sostenibilità che integra la responsabilità ambientale del costruito, la sostenibilità economica dell’intervento, il social welfare (culturale ed economico) e l’efficiente utilizzazione delle risorse disponibili.
La sostenibilità ambientale, nel caso della nuova costruzione, si traduce in un minore utilizzo, ad esempio, di acciaio e calcestruzzo, nel caso di una riqualificazione si sostanzia nella realizzazione di involucro ad elevate prestazioni termiche (estive ed invernali) con la conseguente riduzione delle dispersioni energetiche il tutto a favore di una riduzione di emissioni di CO2 (quale sola memoria si ricorda che il comparto edilizio è responsabile della produzione di circa il 35% complessivo delle emissioni di CO2) e di una economicità di gestione da parte dei fruitori del complesso, ma anche nell’estensione del limite vita di una costruzione, fatto non da poco proprio in una vision di cura ambientale.
La sostenibilità economica dell’intervento è da intendersi biunivocamente operante nei confronti dell’attuatore, ma anche a favore dell’utente finale che deve trovarsi nelle condizioni di poter investire nel progetto in corso.
Il social welfare culturale comporta l’introduzione di schemi architettonici che siano in grado di rappresentare il nuovo linguaggio estetico e darne forma secondo stilemi ampiamente diffusi recuperando l’uso di un’architettura fatta di linee pulite, razionali ed eleganti, ma senza scadimenti nel modernismo di facciata e vuoto di contenuti. Almeno secondo me …
L’efficiente utilizzo delle risorse disponibili è il risultato di tutto quanto sopra ed è chiaramente l’effetto del “noi pesiamo” sul nostro pianeta.
In questo progetto di sviluppo urbano sostenibile sicuramente molto interessante, qual’è il ruolo del progettista?
Il professionista che produce una tale architettura, giocando con così elevate quantità di volume, materia prima da plasmare, non deve essere un semplice “mestierante della matita” ne tantomeno asservito alla logica mattonara della megaproduzione, ma una persona conscia del fatto che quanto viene realizzato marca il territorio (soprattutto un territorio privo di caratterizzazioni ambientali sue proprie, quali scorci o vedute naturali …). Con il suo lavoro, il progettista, lo definisce e il suo lavoro rimane quale espressione culturale che può contrassegnare, in positivo o meno, la società e l’ambiente. Per questo motivo io ritengo importante che il linguaggio architettonico prodotto non sia la ripetizione del classico edificio da speculazione urbana, ennesima reiterazione degli episodi tanto noti dell’Italia del secolo scorso. Quella del clientelismo tout court, per intenderci. Noi siamo artisti, dovremmo prenderne coscienza e dovremmo essere capaci di rinnovarci nelle idee e nelle proposte.
La proposta progettuale, quindi, deve proporre l’utilizzo di uno schema formale sicuramente nuovo perché inusuale per questi luoghi, definisce una più elevata misura di rispetto dell’ambiente come già espresso in precedenza, consentendo, infine, l’espressione di un immagine che era, e deve tornare ad essere, principio imprescindibile dell’elemento rappresentativo/culturale di una società attiva, in movimento e non ancorata a condizioni e visioni sicuramente superate.
Non esiste, però, la soluzione a impatto zero per l’ambiente (urbano, naturale o sociale), l’uomo stesso non è a impatto zero (qualche rifiuto lo produciamo … lasciando spesso la nostra impronta negativa). Serve, per questo, creare un sistema di contrappesi e, in questo, le norme (relative a come costruire/recuperare un edificio a basso impatto energetico ad esempio) ci danno un grande aiuto.
L’idea progettuale deve tendere ad unire l’aspetto di riqualificazione urbana, la rigenerazione del costruito, che può rivitalizzare un’area magari economicamente interessante ma poco appetibile (per via della difficoltà operativa) con una chiara idea green e che tende a far propria la visione a “zero consumo di suolo” perché recupera l’esistente evitando così espansione su aree che possono mantenere la ruralità che le contraddistingue, e unisce il concetto della riduzione dell’impatto energetico.
L’introduzione di ampie porzioni a verde dentro il costruito, all’interno della città (banalmente con i tetti resi a verde), l’attenzione alla riduzione del consumo energetico (avvicinandosi ad un edificio n-zeb), la creazione di superfici drenanti (capaci di restituire acqua al sottosuolo e non convogliandola in condotte fognarie), sono la parte integrante, anche se sarebbe meglio definirla quale parte tecnicamente sostanziale, dell’edificio in progetto e di cui rappresentano una parte dei famosi contrappesi citati.
Contrappesi che tendono a ridurre l’impatto dell’edificazione stessa soprattutto in un centro già completamente edificato e pressoché privo di elementi verdi e di luoghi urbani significativi.
L’uso, infine, di colori adatti, e l’inserimento delle pareti verdi sulla facciata (oltre a migliorare il confort termico) consentono di rendere, anche a livello percettivo (visivo), l’edificato come parte di un contesto capace di empatia con i cittadini, veri fruitori dello spazio urbano.
Il tutto perché ciò che deve muovere la vision progettuale (ma anche amministrativa) deve essere legata al concetto di vivere la città e non sopravvivere in città.
“Non è bello costruire dal nulla … bisogna intervenire dove c’è già qualcosa … Lo scopo è di rivitalizzare la città … il modo è quello di riqualificarla e trasformarne i luoghi in centri di ATTRAZIONE E SOCIALITA’ ”.
Il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij afferma: ”La bellezza salverà il mondo” e per Dostoevskij il contrario di “bello” non era “brutto” ma utilitaristico, qualcosa legato allo spirito di usare gli altri e così rubar loro la dignità. Un po’ come quei piccoli ambienti fatti per massimizzare solo i guadagni dove viene buttata un’umanità spesso disperata…
Molti definiscono ripetutamente la bellezza come “accogliente”. Quando, infatti, giungiamo in presenza di un oggetto bello, questo ci accoglie. Si stacca dallo sfondo neutro come se ci venisse incontro per dirci “Benvenuto”! L’oggetto bello colma la mente, eppure spinge alla ricerca di qualcos’altro, qualcosa di più grande o, comunque, analogo con cui hai, così, bisogno di essere messo in relazione.
L’ambiente in cui viviamo dovrebbe essere così e il nostro contributo a costruire il bello nel nostro quotidiano lavoro e nell’incontro con gli altri, è ciò che ci aspetta per il domani nonostante i complotti, le scie chimiche e le vicine tuttologhe… anche se dobbiamo lavorarci un po’ ancora. Alla fine è un problema di cultura.
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